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mercoledì 14 gennaio 2015

Urla dal balcone




– Oh, Romeo, Romeo, perché sei tu, Romeo? Rinnega tuo padre, rifiuta il tuo nome, o se non vuoi farlo, giura che mi ami e non sarò più una Capuleti.
Come, madonna Giulietta, dobbiamo incontrarci in mezzo ai roseti? Non conoscete qualche luogo più accogliente? Le rose hanno le spine, mia diletta.
– Quella che chiamiamo rosa anche con un altro nome avrebbe il suo profumo…
Quale fumo? È scoppiato un incendio? Deh, fuggite, Giulietta, mettetevi in salvo!
– Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per quel nome che non è parte di te prendi me stessa…
– La madre badessa? Non ditemi che vostro padre vuole rinchiudervi in un convento per contrastare il nostro amore!
– Santo Cielo, Romeo! Che cosa devo fare con te?
– Volete offrirmi un tè? Grazie, siete gentile, ma preferisco un boccale di buon vino, magari un nebbiolo. Piuttosto ditemi, leggiadra fanciulla, perché urlate così forte, sporgendovi dal vostro balcone?
– Perché sei sordo, Romeo. SORDOOO!
– Come? Il tordo? Ma non era l’allodola?
– Oh, Romeo, Romeo…


Dalla mia raccolta di racconti ironici:
Non sono Bukowski




http://www.youcanprint.it/youcanprint-libreria/narrativa/non-sono-bukowski-9788891160508-ebook.html

sabato 3 gennaio 2015

Conto alla rovescia





Sei, le panchine della stazione.
Le hai contate innumerevoli volte e studiate fin nei minimi particolari. Pensi che avrebbero bisogno di una mano di vernice, e non solo; alcune sono così malridotte che solo il vecchio Gualtiero, il barbone, si azzarda ad abbandonarci sopra il corpo macilento. Tanto, per lui non fa differenza: una vale l’altra.
Conosci Gualtiero praticamente da sempre, e ti sembra sempre uguale a se stesso, come se per lui il tempo si fosse fermato a un’età indefinibile. Gualtiero è un senza tetto, senza amici, senza nulla. Appena riesce a racimolare qualche centesimo se lo “scola” al bar. Il vino è il suo migliore amico, l’unico che non gli neghi mai un po’ di calore, nemmeno nelle giornate più rigide dell’inverno, come quella di oggi. Quando è abbastanza ubriaco da non sentire i morsi del freddo e della fame, si sdraia sulla prima panchina che trova e rimane lì per ore a occhi aperti, a contemplare le metamorfosi del cielo. Parla con le nuvole, le interroga su dove le spinga il vento, le implora a voce alta di portarlo con loro; talvolta intona nenie sconclusionate per far eco allo stridio delle cornacchie o allo scrosciare della pioggia.
Anche se finora non ti sei mai interessata a lui, stamani avresti voglia di rivolgergli la parola, chiedergli qualcosa della sua vita, o magari fare soltanto quattro chiacchiere. Così, tanto per ingannare quest’attesa che ti sta dilaniando. 
Lo guardi, sei tentata di chiamarlo ma desisti: sai che sarebbe inutile. Con gli esseri umani non parla: a mala pena borbotta qualcosa che assomiglia a un grazie quando gli lasciano cadere una moneta nella mano, e non solleva nemmeno gli occhi a guardarli. Non accetta altro, solo qualche spicciolo per pagarsi un bicchiere di rosso, e col barista non ha bisogno di sprecare parole: appoggia sul bancone le monetine contate scrupolosamente, un centesimo alla volta, e aspetta a testa bassa che l’uomo gli versi da bere.

Cinque, le fioriere sul primo binario.
Fanno parte del pacchetto “migliorie e abbellimenti” dell’ultimo intervento di restyling della stazione. Pochi soldi stanziati e tanta vanagloria, e il sindaco con tutta la giunta in pompa magna il giorno dell’inaugurazione, insieme a quattro sconosciuti funzionari delle Ferrovie che non vedevano l’ora di espletare quella fastidiosa incombenza e tornarsene a scaldare le poltrone dei loro uffici lussuosi.
A distanza di pochi mesi non è sopravvissuta nemmeno una piantina, e le fioriere si sono trasformate in oscene pattumiere piene di cicche, cartacce e lattine vuote. In barba ai cestini della raccolta differenziata disseminati ovunque e più inutili di… più inutili di te. O quasi.
Non riesci, per quanto ti sforzi, a trovare qualcosa che sia più inutile di te. Se ti prendessi la briga d’impiegare, ogni giorno, cinque minuti del tuo tempo per annaffiare quelle fioriere, forse faresti la cosa più significativa di tutta la tua vita. Un fiore sbocciato per merito tuo potrebbe spruzzare di colore il grigio del tuo inverno perenne. Probabilmente ti prenderebbero per matta, una povera squilibrata che va ad annaffiare le piante secche della stazione. Ti giudicherebbero perfino più strana di Gualtiero: lui si limita a parlarci con le piante, e solo quando è troppo sbronzo. Come adesso che, sdraiato sulla panchina accanto alla tua, cinguetta di rimando a un pettirosso infreddolito che saltella tra i sassi della massicciata, in cerca di qualche insetto sopravvissuto al gelo.
Avresti voglia di cinguettare anche tu, ma non sai fischiare. Non hai mai posseduto nessuna particolare abilità o attitudine, non hai mai, come si suol dire “combinato nulla di buono”. Non hai un compagno, né figli, né amici. Avevi un gatto, e forse è stata l’unica creatura al mondo per la quale fossi importante, che provasse per te qualcosa di simile all’amore, anche soltanto perché lo nutrivi e lo tenevi al caldo. È morto due anni fa poco prima di Natale e, anche se sai che tutto e tutti alla fine muoiono, che nulla sopravvive, che non esiste un “oltre la vita”, non hai più trascorso una notte senza sperare di sentire di nuovo il ronfare delle sue fusa e il calore del suo pelo soffice a riscaldare il tuo letto vuoto.

Quattro, i pendolari infreddoliti che aspettano il treno.
Due sono uomini, giovani; passeggiano nervosamente lungo la pensilina e sbuffano boccate di vapore acqueo intriso di frustrazione all’annuncio dell’ennesimo ritardo. Ogni tanto guardano l’orologio e imprecano. La terza, una ragazza, sembra prenderla con filosofia: guadagna una panchina e calca un paio di voluminose cuffie sopra il berretto di lana. In fondo, arrivare tardi a scuola non è il peggiore dei mali, anzi… almeno a quell’età.
Fai uno sforzo per tornare indietro con la memoria e ricordare com’eri da adolescente. Una brava ragazzina, studiosa, giudiziosa… Che ne è stato dei progetti che facevi la sera prima di addormentarti, dei sogni che coloravano le tue notti, dell’entusiasmo con il quale ti svegliavi la mattina? Volevi essere diversa, non omologata, renderti protagonista di grandi gesta. Non hai combinato nulla se non sovvertire tutti i pronostici, deludere le aspettative insieme a coloro che hanno provato a volerti bene. Non molti, a dire il vero, ma nemmeno tu hai fatto granché per farti amare. Chi è incapace di dare amore, come lo sei tu, non può pretendere di riceverne, e ti sei ben presto rassegnata a questa consapevolezza. Per molto tempo sei bastata a te stessa, ma adesso sei stanca di tutto, spossata nel fisico e nell’animo. Sopraffatta dalla noia che ti uccide piano piano, un giorno dopo l’altro.
Guardi l’anziana signora che si è seduta timidamente accanto alla ragazza, rivolgendole un abbozzo di sorriso tra la ragnatela delle rughe e ricevendo, in cambio, un silenzio indifferente e un’alzata di spalle. Vuoi fare quella fine? Mendicare una parola gentile, un gesto, uno sguardo da chi, al contrario, è quasi infastidito dalla tua presenza? Quella prospettiva ti fa rabbrividire più del vento gelido di tramontana. No, grazie tante: hai pagato il biglietto, ti sei guardata il film sbadigliando. Non ti è piaciuto… nessuno può costringerti a rimanere seduta fino al The end.

Tre, i minuti che mancano.
Guardi l’orologio scoprendo il polso, e mille aghi di ghiaccio ti bucano la pelle.
Cristo, com’è freddo! Ti viene in mente il verso di una canzone famosa: “dritto all’inferno avrei preferito andarci d’inverno ”.
Sorridi. Chissà se la conosce, Gualtiero, quella canzone. Avresti voglia di chiedergli di cantarla per te con la sua voce impastata dall’alcool, ma lui non si è nemmeno accorto della tua presenza. È assorto nel suo delirante dialogare col pettirosso che sembra perfino rispondergli. Si è drizzato a sedere e il piccolo volatile gli zampetta intorno, per nulla intimorito. Ah, il potere della fame!
Non puoi distrarti con queste idiozie alla “San Francesco d’Assisi”, il treno sta per arrivare. L’hanno già annunciato: il veloce Frecciarossa che passa a centoventi chilometri l’ora.
Allontanarsi dalla linea gialla, treno in transito, gracchia l’altoparlante.
Sospiri di sollievo: non sei mai riuscita a prendere i treni importanti della vita, alla vita porrai fine sotto le ruote di un treno. Non uno qualsiasi, ma il più moderno e veloce, quello con il biglietto più costoso.
Non hai paura, non te ne accorgerai nemmeno, nessuno piangerà per te. Domani, i pendolari intirizziti leggeranno un articoletto nella cronaca locale, e ne parleranno un po’ al bar sorseggiando il primo caffè di una giornata uguale a tante altre. Sul giornale, forse, metteranno la tua foto, speri una non troppo recente e non troppo mal riuscita. Ti sia concesso un ultimo sprazzo di vanità. Poi basta: il mondo si dimenticherà di te e tu non sarai mai esistita.
Ti alzi lentamente dalla panchina.

Due, i passi.
Lo vedi. Il muso rosso e affusolato spunta dalla curva sotto il cavalca ferrovia. Il macchinista attiva il segnale acustico d’avvertimento. Pochi istanti e ti offrirai all’abbraccio d’acciaio dell’unico amante che non ti tradirà, e che tu non tradirai. Due passi ti separano dalla linea gialla che determina il limite di sicurezza del marciapiede. Attraversare quella linea è vietato, ma tu te ne freghi dei divieti, come te ne sei fregata sempre. Due passi e supererai tutti i limiti, quelli che ti sono stati imposti e quelli che, tu stessa, ti sei imposta per troppo tempo.
Destro-sinistro o sinistro-destro? Devi solo stabilire la sequenza, e questa sarà l’ultima scelta che dovrai fare. Sembra una sciocchezza, ma in realtà è importante, un po’ come decidere con quale piede scendere dal letto la mattina, e se disgraziatamente è quello sbagliato, tutta la giornata va per traverso. A te è andato sempre tutto di traverso, questa è l’unica occasione che ti rimane per raddrizzare le cose. Non puoi fallire anche stavolta. Quindi: destro-sinistro o sinistro-destro?
Si dice che, negli ultimi istanti, tutta la vita scorra davanti agli occhi in un attimo. È mai possibile che tu, invece, li trascorra a dibatterti nel dilemma di quale piede muovere per primo? Ora basta! Ti senti ridicola, anzi, peggio: sei grottesca. Lo sei sempre stata, ridicola e grottesca, ma adesso basta davvero. Ecco il treno, devi fare solo questi due stramaledetti passi che separano la panchina dalla linea gialla, poi…

Uno, il salto…
«Ehi, signora!»
Ti volti di scatto. Il treno sfreccia veloce alle tue spalle, fischiando. Senti il vento dello spostamento d’aria che ti scompiglia i capelli. È già passato oltre. Gualtiero ti guarda, parla proprio con te:
«Signora, avrebbe qualcosa da mangiare? Un pezzetto di pane, un biscotto… oh, non per me. Questo povero uccellino sta morendo di fame.»
Lo fissi inebetita, poi scoppi a ridere. Non sei riuscita a fare nemmeno due miserabili passi, ma forse… forse è così che doveva andare. Non riesci a smettere di ridere. Gualtiero ti scruta perplesso, poi allarga la bocca sdentata in una smorfia che assomiglia a un sorriso. Non sai perché, ma quel sorriso, il primo che qualcuno ti rivolge da secoli, t’infonde un senso di calore.
«Mi dispiace, non ho nulla con me…» rispondi pensando che, certo, non saresti potuta uscire da casa per andare a suicidarti e portarti dietro la merenda.
Trattieni a stento un altro scoppio d’ilarità.
«Però possiamo andare al bar e comprare qualcosa per questa bestiola» aggiungi, sforzandoti di rimanere seria. «E magari anche per noi due: all’improvviso mi è venuta una gran fame» concludi.
Hai fame davvero, e non ti capitava da anni.
«Oh, non vorrei darle troppo disturbo,» si schermisce l’uomo, «se lei fosse così gentile… a me basterebbe un bicchiere di vino rosso.»