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martedì 9 giugno 2015

Tre personaggi contro l'autore





«Venti cartelle entro una settimana. L’editore non è disposto ad aspettare oltre. Ti abbiamo dato carta bianca e non sappiamo ancora nulla del nuovo romanzo. Lo sai cosa rischi, vero?»
Manuel lo sa: risoluzione del contratto e penale piuttosto salata. Serra le dita intorno al cellulare.
«Sì, ho capito, Sarah.»
«Cristo, Manuel» incalza la donna. «Stiamo perdendo del tempo prezioso! Dobbiamo battere il ferro prima che si smorzi il successo della tua opera prima; fra pochi mesi nessuno ricorderà un giovane autore esordiente che ha scritto un romanzetto appena passabile, sfruttando il filone hard che va per la maggiore.»
«Ah, grazie tante, Sarah!»
«Adesso non fare l’offeso: non sei la rivelazione letteraria del secolo. Sei uno dei tanti, con uno stile discreto e una spiccata propensione a tessere trame morbose che intrigano il pubblico femminile. Nemmeno noi ci aspettavamo un simile consenso.»
«Però vi ho fatto guadagnare un bel po’…»
«Certo» lo interrompe stizzita, «ma ci hai guadagnato anche tu! Senza contare l’anticipo per il secondo libro, che dovrebbe già essere in stampa. Insomma» il tono della donna s’è addolcito, «ora mettiti tranquillo e cerca di buttare giù qualcosa. So quanto sia difficile, dopo un romanzo di successo, scriverne un altro dello stesso livello. Ti senti svuotato, ti sembra di non avere più nulla da dire. È normale, ti assicuro che non hai perso l’ispirazione: si tratta solo di ansia da prestazione artistica.»
«Credevo fossi la mia editor, Sarah, non la mia psicanalista» ironizza Manuel.
«Lo sono, stupido! Ma mi considero anche tua amica, e se sono un po’ rude, è solo per spronarti. Sono stata la prima a credere in te, non deludermi.»
«Non ti deluderò, tranquilla: ho una buona storia; concedimi ancora qualche giorno…» farfuglia, cercando di dare alla voce un tono convincente.
«E va bene» sospira la donna, «voglio fidarmi, ma non più di una settimana, intesi?»
Manuel saluta e riattacca. Ha la fronte imperlata di sudore: non ne può più delle strigliate della sua editor. Dannazione, venti cartelle in pochi giorni! Ha mentito spudoratamente: non ha nessuna storia, nemmeno mezza idea, niente di niente. Su una cosa Sarah ha visto giusto: gli sembra davvero di non avere più nulla da scrivere, si sente svuotato, spremuto come un limone, esaurito come una batteria scarica.
Fissa lo schermo del computer, aperto sul programma di scrittura; la pagina, desolatamente bianca, aumenta la sua inquietudine. Prova a digitare qualche carattere a caso, solo per non vedere più quel vuoto lattiginoso che rispecchia il deserto della mente. I segni neri, buttati là senza nessun legame strutturale, cominciano a muoversi e a rincorrersi sul monitor come formiche impazzite. Manuel sgrana gli occhi, e quelle “cose” continuano a dimenarsi sullo schermo retro-illuminato; sembra che mutino… sì, stanno crescendo! Adesso assomigliano a grossi scarafaggi neri con tanto di zampette e antenne tremolanti; stanno per tracimare dal rettangolo del foglio elettronico. Allunga la mano di scatto e abbassa il display del notebook fino a richiuderlo sulla tastiera. Il cuore gli batte forte e sente pulsare le tempie; trattenendo il respiro, solleva lo sportello. Gli insetti sono di nuovo degli innocui caratteri neri digitati a random. Li cancella e chiude il programma.
Rimane per qualche istante a fissare le icone del desktop temendo di vederle animarsi, ma non succede nulla. Respira di sollievo: è stanco e il cervello gli ha giocato un brutto scherzo. Farà una doccia, una bella dormita, e domattina si sveglierà rilassato e pieno d’idee. Spegne il p.c. e si alza dalla sedia.
Mentre percorre i pochi metri che separano lo studio dal bagno, rimugina sui personaggi del romanzo che domani comincerà a scrivere. Dovranno essere ancora più viziosi e perversi di quelli del primo libro. Se provasse con un sequel? Scarta subito l’ipotesi: non è possibile, a meno di non far resuscitare la protagonista, eliminata nel penultimo capitolo, massacrata dalla rivale a colpi di forbici.
Alcune macchie sul cotto delle piastrelle attirano la sua attenzione: sono scure, rotondeggianti, di un liquido denso… sembra sangue. Si china a detergerne una con le dita; strofina fra loro i polpastrelli, li annusa: la consistenza vischiosa, l’odore ferrigno… è proprio sangue! Solleva lo sguardo da terra e la vede, esattamente come l’ha descritta nella scena del libro. È di spalle e si sta guardando allo specchio; si gira verso di lui, lo fissa.
«Guarda come mi hai ridotto…» mormora con voce spezzata dalla sofferenza.
È nuda, con il trucco disfatto nel volto rigato di lacrime, il corpo sfigurato da orrende ferite che sanguinano copiose, profanando il candore della pelle. Nella carne martoriata spiccano gli squarci profondi sul seno, sul ventre, sulle cosce, e il fendente mortale alla gola. Gli occhi allucinati fiammeggiano di rabbia.
«Mi sono fidata di te, sono venuta a offrirti la mia storia e tu mi hai oltraggiato. Mi hai descritto come la peggiore delle sgualdrine e mi hai fatto crepare affogata nel mio sangue. Non era questo l’epilogo che volevo. Io ero soltanto una donna innamorata. Mi hai tradito, maledetto bastardo!»
Manuel non riesce a respirare dallo shock. La fissa per qualche istante con gli occhi sbarrati, poi la stanza comincia a girare e la mente si smarrisce; crolla svenuto sul pavimento.
Le lame di luce che filtrano dalla persiana gli feriscono gli occhi non appena socchiude le palpebre. Che ci fa sdraiato sul pavimento del bagno? Si sforza di riordinare le idee. Il ricordo di quanto è successo la sera precedente sferza la mente come una frustata; scatta in piedi, si guarda intorno circospetto, ispeziona le stanze dell’appartamento, controlla minuziosamente le mattonelle. Niente sangue… lei non c’è. Che idiota! Certo che non c’è, come potrebbe? Lei è soltanto nelle pagine del libro, e per giunta è morta, svanita per sempre con la parola “fine”. Dev’essere stato vittima di un malore che l’ha fatto scivolare a terra, per poi passare dallo stato d’incoscienza al sonno. Ha avuto un incubo spaventoso, tanto vivido da sembrare reale. Si sente a pezzi e ha un mal di testa feroce. Al diavolo! Non è in grado di mettersi a scrivere… una doccia calda, poi fuori a respirare l’aria fresca del mattino.
Al bar, la cameriera lo gratifica di un sorriso. È simpatica, decisamente bruttina ma, grazie a Dio, rassicurante nella sua anonima normalità.
«Buon giorno, Manuel. Il solito?»
«Sì, Anna, grazie» annuisce. Sorseggia il caffè sovrappensiero, assaporando il retrogusto amaro della miscela bollente.
«Immagino che sarai fiero di te stesso…»
La voce sarcastica lo fa sobbalzare; non si era accorto del giovanotto in piedi accanto a lui, tanto vicino da sfiorarlo. Lo guarda e il sangue gli si gela nelle vene.
«Lei era la mia vita…» continua il ragazzo, che sembra in procinto di scoppiare in lacrime. «Ci hai fatto conoscere, innamorare, perdere nel delirio dei sensi. Abbiamo ingannato, mentito, rinnegato i nostri principi e tradito le persone che avevano fiducia in noi, pur di stare insieme; e tu sempre lì, a manovrare le nostre azioni, a spiare i nostri turbamenti e godere morbosamente dei nostri amplessi. Ti eccitavi a vederci fare sesso senza ritegno; erano le tue fantasie malate che ispiravano le nostre perversioni. Maledetto, impotente frustrato!»
Gli occhi scuri sembrano volerlo incenerire; le labbra sensuali si arricciano, scoprendo i denti in un ghigno feroce. Manuel conosce quegli occhi e quelle labbra: li ha descritti nel romanzo, li ha creati lui!
La voce del giovane si affievolisce in un tono lamentoso: «Ero venuto da te pieno di speranze, mi fidavo di te; mi hai dato la cosa più bella della mia vita e me l’hai subito tolta. Perché mi hai fatto questo? Dovevo vendicarla, e non potevo continuare a vivere senza di lei. Tu lo sapevi: sei tu la causa di tutto…» stringe i pugni e ruota i polsi a mostrargli le vene tranciate, dalle quali scorre un rivolo di sangue semi rappreso.
La tazzina trema nella mano di Manuel; il caffè si rovescia sul ripiano del bancone, sgocciolando in una chiazza scura sul pavimento.
«Manuel, che succede?»
La voce allarmata di Anna lo strappa dalla nebbia che gli avviluppa la mente. La fissa attonito, incapace di far uscire alcun suono di bocca; deglutisce per stimolare la salivazione.
«Lo vedi anche tu?» mormora con un filo di voce.
«Chi? Di cosa stai parlando?»
«L’uomo che è qui, vicino a me: giovane, capelli scuri, occhi profondi…»
«Manuel, sei impazzito? Ci siamo solo tu ed io nel locale.»
Si volta lentamente, terrorizzato da quello che si aspetta di vedere; niente, non c’è nessuno.
«C’era un’altra persona fino a poco fa…» insiste, lottando contro la nausea.
La ragazza scuote la testa: «Ti ripeto che non c’era nessun altro. Stavamo chiacchierando. Tu bevevi il caffè, poi hai rovesciato la tazzina… Sei sicuro di sentirti bene?»
«Sì, cioè no…» balbetta confuso. «Scusami, adesso devo andare.»
Schizza fuori dimenticandosi di pagare la consumazione. Attraversa la strada senza rendersi conto dell’auto che lo schiva per un pelo; non sente nemmeno lo strombazzare del clacson e le imprecazioni del conducente. Percorre alcuni isolati in stato di trance; nel cervello rimbomba la voce del ragazzo, le sue pesanti accuse gravano come macigni sullo stomaco.
Quando i crampi diventano insopportabili, affretta il passo per raggiungere il parco pubblico; fa appena in tempo a piegarsi dietro un cespuglio e prorompe in violenti conati di vomito che gli squassano le viscere fino a lasciarlo stremato. In preda a un tremore convulso, con la vista annebbiata e un sudore appiccicaticcio che gli incolla gli abiti alla pelle, crolla su una panchina, privo di forze. Rimane lì rannicchiato, con i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa stretta tra le mani; serra gli occhi, cercando di rallentare i battiti del cuore e attutire il dolore lancinante che gli tortura il cervello. Non osa quasi pensare, non è in grado di riflettere né tanto meno di razionalizzare: anche se esiste una spiegazione logica, in quel momento non è alla portata della sua mente prossima al delirio.
Le voci squillanti di alcuni bambini lo strappano a quella sorta di letargo. Allarga le dita che comprimono il volto e si sforza di aprire gli occhi; a fatica mette a fuoco le immagini: alberi, panchine, un vecchietto con il cagnolino al guinzaglio, alcune mamme che spettegolano tra loro mentre sorvegliano i movimenti dei figli. Una scena tranquilla, idilliaca, soprattutto normale. Se non fosse per gli schiamazzi di quei mocciosi che gli rimbombano nella testa fino a farla scoppiare…
«Mi sarebbe piaciuto avere dei bambini…» la voce è carica di struggimento. «Almeno un paio. Filava tutto liscio con mio marito: eravamo felici, innamorati…»
Manuel si volta con la lentezza delle immagini al rallentatore, fissa a bocca aperta la giovane donna che gli è seduta accanto. Non si era accorto della sua presenza, non sa da quanto tempo sia lì. È bionda e minuta, il profilo è delicato, il volto pallido, le labbra contratte in una smorfia di dolore, gli occhi abbassati. Sa che sono azzurri, anche se non può vederli. Lo sa perché li ha immaginati così: azzurri come fiordalisi, grandi, fiduciosi. Li ha descritti lui quegli occhi, li conosce meglio di chiunque altro.
La giovane si volta di scatto e glieli spalanca in faccia, facendolo sussultare al punto che quasi cade dalla panchina. È sconvolto ma non sorpreso: in fondo se lo aspettava. Lei non poteva mancare all’assurdo, diabolico appello. Lei, l’antagonista, l’ultimo lato del triangolo d’amore e morte, quell’enorme cumulo di cazzate che, Dio solo sa il perché, si è tanto esaltato a scrivere. Rassegnato all’inevitabile, ascolta ciò che la donna ha da dirgli.
«Non doveva finire così… è colpa tua…» gli occhi trasparenti brillano di follia. «Non sono un’assassina: ero andata da lei solo per parlare. L’ho supplicata di lasciarmi il mio uomo, non volevo ucciderla…» lacrime copiose cominciano a sgorgarle dalle ciglia. «Mi ha deriso, umiliato. Si è lasciata scivolare di dosso la vestaglia per sbattermi in faccia la sua bellezza, per dimostrarmi che non potevo competere con lei. Rideva, mi prendeva in giro. Ho immaginato le mani di mio marito su quel corpo perfetto, le sue labbra sulla bocca sfrontata, la sua voce che le sussurrava frasi appassionate. Lei continuava a ridere senza pietà. Non ho capito più nulla: mi girava la testa… mi sono appoggiata a un mobile per non cadere e me le sono trovate in mano…» abbassa gli occhi sul grembo a guardarsi le mani.
Manuel segue il suo sguardo e sussulta violentemente: le forbici sono lì, ancora aperte, lorde di sangue.
«Tu lo sapevi, ce le avevi messe tu, volevi che lo facessi!» gli grida in faccia. «Hai spezzato i miei sogni e mi hai trasformato in un’assassina. Ero folle di disperazione e sono corsa da lui. Speravo che capisse, che mi aiutasse, e invece…» si porta una mano al collo sottile, sul quale risaltano i segni violacei di una stretta mortale. «Non ci credevo, mi sentivo mancare il respiro, annebbiare la vista… mi dicevo che non era possibile: lui non poteva farmi questo, io lo amavo tanto…» scoppia in un irrefrenabile pianto disperato. «È solo colpa tua… ti odio!»
È troppo: Manuel si lascia sprofondare nella nebbia ovattata dell’incoscienza.
«Ehi, giovanotto, si sente male?»
Apre gli occhi con enorme fatica, mette a fuoco il volto di un anziano signore che lo scuote per una spalla. Riconosce il vecchietto con il cane. Le giovani mamme stanno ancora ciarlando, i ragazzini scorrazzano vivaci… il posto accanto è vuoto.
«Dov’è lei?» ansima.
«Lei chi? Di cosa sta parlando, giovanotto?»
«C’era una donna seduta qui con me, una ragazza giovane, carina… piangeva…»
L’uomo gli rivolge un’occhiata perplessa, scuote la testa: «Non c’era nessuna donna, ne sono sicuro. La stavo osservando da un po’: si teneva la testa fra le mani, tremava… poi si è afflosciato sulla panchina. Adesso come si sente? Ho la macchina, posso accompagnarla a casa.»
«No, non ce n’è bisogno» si schermisce Manuel, «ho solo avuto un capogiro, adesso va meglio, grazie» balbetta. Si alza dalla panchina e s’incammina, barcollante, verso casa.
Non si dà nemmeno la pena di controllare le stanze: sa che “loro” non ci sono, non ci possono essere. Sono nel romanzo e sono morti. È stato lui a decidere di eliminarli uno per volta, in una sequenza implacabile di eventi concatenati. Loro sono soltanto nella sua testa, una testa che sta dando i numeri. Deve placare gli spasimi dell’emicrania e cercare di riflettere; prende dal mobiletto dei medicinali un paio di pastiglie, le ingoia con un bicchiere d’acqua e si sdraia sul divano. Le persiane chiuse conferiscono alla stanza una rilassante oscurità crepuscolare; posa il capo sui cuscini, chiude gli occhi e cerca di riallacciare il filo dei pensieri.
Tutto è cominciato dopo la telefonata di Sarah… o forse quello è stato solo l’elemento scatenante. Da mesi, ormai, tira avanti al limite delle forze: il libro, il battage pubblicitario, l’interminabile serie d’interviste, gli incontri con i lettori, le apparizioni nei programmi radiofonici e televisivi. Si è gravato di un carico di fatica e stress superiore alla sua resistenza. È stanco, dimagrito, teso… e il secondo libro, che dovrebbe già fare bella mostra di sé nelle migliori librerie, non è nemmeno una bozza. Ci sono tutti i presupposti per sclerare. Salvo che non si tratti di qualcosa di patologico. Forse - rabbrividisce solo a pensarlo - i sintomi di un cancro al cervello. Ha letto da qualche parte che un tumore del lobo occipitale può causare allucinazioni e alterazione delle percezioni sensoriali; il mal di testa potrebbe essere provocato dall’estensione della massa tumorale, insieme alle convulsioni e alla nausea. Assurdamente, la possibilità di ricondurre a cause fisiologiche la serie di fenomeni inspiegabili dei quali è stato vittima nelle ultime ore, gli procura un senso di sollievo. Si sente quasi rincuorato all’idea di essere semplicemente, banalmente ammalato. Domani stesso andrà dal medico e farà gli accertamenti clinici necessari e se, come teme, si tratta invece di un esaurimento nervoso con i fiocchi, prenderà un lungo periodo di pausa per curarsi. La salute prima di tutto, non c’è contratto che tenga, e Sarah può andare a farsi fottere insieme all’editore!
Prima ancora di realizzare la cosa a livello razionale, l’istinto lo mette in guardia: sta per accadere di nuovo. I sensi non percepiscono nulla di anomalo, ma lo sa, lo sente, lo avverte nei pori della pelle che cominciano a essudare, nei peli del corpo che si drizzano tutti insieme, nei muscoli che s’illanguidiscono quasi fosse un pupazzo di pezza. Con uno sforzo sovrumano si solleva a sedere e apre gli occhi.
Loro sono lì, tutti e tre, in piedi in mezzo alla stanza. Non parlano e non si guardano l’un l’altro, ma lo fissano con occhi carichi d’odio. Manuel avverte uno schianto nella testa: il fuoco di un’ira rabbiosa, più forte del terrore, gli divampa nel cervello.
«Che volete da me, maledetti?»
«Vogliamo vendetta» il ragazzo è il primo a parlare.
«Non doveva finire così» incalza la protagonista.
«Devi pagare per il male che ci hai fatto» sentenzia l’altra.
Tutti e tre avanzano verso di lui con esasperante lentezza.
«Io ero l’unico ad avere il diritto di decidere il finale!» grida rabbioso. «Io vi ho creati, io sono l’arbitro delle vostre vite e anche della vostra morte!»
«Povero idiota…» lo schernisce il ragazzo, scuotendo la testa beffardo.
«Non capisci un cazzo!» sghignazza la protagonista.
«Siamo noi che siamo venuti da te» termina l’altra. «Non ci hai “inventati” tu, quindi non puoi eliminarci. Noi non possiamo morire.»
È tutto talmente grottesco che Manuel scoppia in una risata isterica; i tre si fermano e lo fissano interdetti.
«Guardatevi» li schernisce senza riuscire a smettere di ridere. «Guardate che cosa siete! Una troietta da quattro soldi, stupida, per giunta! Ti sei lasciata massacrare senza nemmeno cercare di difenderti. Un latin lover da strapazzo, vigliacco e senza palle. Ti sei tagliato le vene come una donnicciola. Una psicolabile sfigata e piagnucolosa. Povera illusa: speravi che lui capisse, invece ti ha tirato il collo come si fa con una gallina!»
I tre ricominciano ad avanzare, minacciosi, fino a incombere su di lui.
«Personaggi…» sibila con disprezzo sulle loro facce, «non siete che personaggi! Volevate tre vite tranquille, anonime, ridicolmente felici? E a chi sarebbe interessato? Nessuno avrebbe speso un centesimo per leggervi. Sono io che vi ho reso immortali! Io vi ho creato, il mio genio ha trasformato le vostre storie squallide in qualcosa che valesse la pena di essere raccontato. Non sareste nessuno senza di me: tre nullità, tre ombre senza forma, tre…»
Non riesce a terminare la frase: un lancinante dolore al petto gli spezza il respiro. Abbassa la testa a guardare, e un’espressione di stupore si allarga negli occhi, davanti ai quali cala repentina una coltre di tenebre. La lama delle forbici, chiuse e impugnate con la forza rabbiosa che solo la mano di una donna mortalmente offesa può trovare, gli ha trapassato le costole e spaccato in due il cuore.

Sarah digita il punto che mette fine al paragrafo e alla storia. Si sgranchisce le dita e stira la schiena. Sorride soddisfatta: ha scritto un bel feuilleton, ci ha messo dentro un po’ di tutto, romance, eros, noir, fantasy, un pizzico di thriller e parecchio horror. Non è un capolavoro, ma dovrebbe andare per l’angolo dedicato al “new weird” della rivista che gliel’ha commissionato. Ha già deciso anche il titolo: “Tre personaggi contro l’autore”, con un rocambolesco, quanto pretenzioso, riferimento letterario. Più tardi lo correggerà e lo manderà per posta elettronica; adesso ha bisogno di fare una doccia e mangiare qualcosa. Getta un’occhiata distratta allo schermo: le sembra che i caratteri siano animati da un impercettibile sfarfallio. Chiude gli occhi e se li strofina: è davvero stanca, comincia ad accusare qualche problema alla vista; dovrà abituarsi a usare gli occhiali, quando lavora al p.c. per parecchie ore consecutive. Si alza e s’incammina verso la stanza da bagno, pregustando il piacere dell’acqua calda che le sferza la pelle.
I caratteri neri si muovono nella pagina come formiche invasate; si moltiplicano, aumentano di volume, si trasformano in orrendi scarafaggi pelosi. Invadono lo schermo fino a fuoriuscirne, copiosi, inarrestabili; corrono sulla tastiera, sul ripiano e lungo le gambe del mobile. Si condensano sul pavimento in una chiazza brulicante, si sovrappongono a migliaia fino a creare un’orrenda struttura che prende forma e si sviluppa in altezza. La creatura assume sembianze umane; nel volto che si va delineando, gli occhi spiritati di Manuel brillano di una luce beffarda. L’uomo sorride sinistramente e s’incammina verso il bagno. Nella mano stringe un paio di forbici insanguinate.
«Sto arrivando, Sarah. Pensavi davvero d’esserti liberata di me, sciocca puttanella?»






venerdì 5 giugno 2015

Una speranza di pace




Il sicomoro si erge nella radura, in un’ansa del fiume delle gazzelle.
Fabio, seduto all’ombra con la schiena appoggiata al tronco, sorveglia i bambini che si arrampicano sui rami più bassi e s’inerpicano agili, per raccogliere i frutti maturi. Mentre i piccoli schiamazzano gioiosi, l’uomo pensa con nostalgia alla sua Sicilia che non vede da anni: il sapore dei fichi d’India, il profumo delle zagare, i tramonti sul mare, infuocati come colate di lava dell’Etna.
Gira lo sguardo a incrociare il sorriso di Patrizia e si sente pervadere da una pace profonda. Patty è l’amore del suo cuore, l’amica dell’anima, la compagna della vita, ed è stato così fin dal primo istante che ha incontrato i grandi occhi nocciola nel viso dalla pelle rosea come quella di una bambina, incorniciato da un tripudio di capelli biondo miele. È bella Patty, con quei colori normanni e la fierezza delle donne siciliane; il carattere indomito e la forza con la quale si batte in difesa degli “ultimi del mondo”, si coniugano con l’amabilità dei modi e la generosità del carattere. Dolce come la pasta di mandorle e salda come l’ossidiana: Fabio non ce l’avrebbe mai fatta, senza di lei, a sopravvivere tutti quei lunghi anni nell’Africa sub-sahariana.
Appoggia la nuca alla corteccia ruvida, chiude gli occhi e si lascia cullare dai ricordi.

«Ho deciso, Fabio: vado In Africa. Non cercare di dissuadermi, ti prego. Il Sudan del Sud è una delle regioni più depresse del pianeta: i bambini muoiono ancora di fame, per malattie che sono debellate nel resto del mondo, per l’impiego in guerre tribali. Le femmine crescono nell’analfabetismo e sono vendute come domestiche o sfruttate come prostitute; molte donne sono vittime di stupri e violenze di ogni genere e muoiono di parto, infezioni, lebbra, malaria, aids… Tu sei un medico, hai il dono di salvare le vite: tutto questo non dovrebbe lasciarti indifferente.»
Fabio si era sentito mancare l’aria al pensiero di perderla; il loro amore era giovane ma già importante: in pochi mesi la ragazza, conosciuta grazie all’attività di volontariato presso la Croce Rossa, era diventata il fulcro della sua esistenza. Non poteva perderla, e soprattutto non poteva lasciarla andare in Africa da sola. Aveva parlato d’impulso, senza riflettere, e mentre le parole gli uscivano dalla bocca, aveva sentito che stava facendo la scelta giusta, l’unica che gli avrebbe permesso di rimanere al fianco di quella piccola donna immensa.
«Vengo con te.»
Patty era impallidita. «Non scherzare, Fabio. Non voglio che lasci la tua famiglia, la professione, gli amici, per seguirmi. Non mi perdonerei mai se ti accadesse qualcosa, e sarebbe terribile se un giorno rimpiangessi ciò che hai abbandonato. Potrai proseguire il tuo impegno anche restando in Sicilia, conoscerai un’altra ragazza, vivrai la tua vita…»
«Non voglio un’altra donna, Patty, e non voglio una vita dove non ci sia tu. Imparerò ad amare l’Africa per amor tuo.»
Patrizia aveva socchiuso le labbra per tentare una replica, ma Fabio si era affrettato a sigillarle con le proprie, in un bacio che suggellava una promessa. Com’era dolce la sua bocca, e morbida la pelle profumata di zagare, e come brillavano i suoi occhi!

Le grida dei piccoli dinka lo riscuotono dal torpore dei ricordi. Sono scesi dall’albero e si affollano intorno a un giovane zebù, cercando di farlo indietreggiare fino alla mandria dei bovini al pascolo. I bambini della missione sono vestiti all’europea, con pantaloni corti e magliette di tessuto leggero, per sopportare l’afa del clima equatoriale. Di età compresa fra i tre, quattro anni, fino all’adolescenza, i piccoli, dalla pelle nera come l’ebano, rivelano la straordinaria bellezza della loro etnia: diventeranno uomini e donne altissimi, slanciati e dal portamento fiero.

«Che cosa stanno dicendo?»
Gli occhi castano-dorati di Patrizia luccicavano di curiosità, mentre si arrendeva all’assalto festoso dei bambini che si accalcavano intorno a lei e cercavano di toccarla. Si era chinata a sollevarne uno fra le braccia.
«Dicono che sei la femmina dello zebù bianco, bella come Sirio, con la pelle color del latte e la pioggia di luna nei capelli» aveva tradotto sorridendo Don Carlo, il giovane sacerdote salesiano che era andato a prenderli al disastrato aeroporto di Juba, per condurli alla missione con un vecchio fuoristrada.
«Santo Cielo, che fantasia!» la risata di Patty, argentina come uno scroscio d’acqua, aveva fatto ammutolire i piccoli che la fissavano adoranti. «Essere paragonata a un astro è lusinghiero, ma una femmina di zebù…»
«È un grande onore!» l’aveva contraddetta il prete. «I bovini hanno un’importanza vitale per questa gente. Devi sentirti orgogliosa di essere paragonata a uno zebù.»
«Oh, beh, per fortuna non ho la sua gobba!»
La battuta aveva strappato una risata ai due uomini, e tutti i bambini si erano messi a ridere, anche se non capivano una parola.

È sempre stata spiritosa, Patty: una donna eccezionale…
«Ricordi, tesoro?» Fabio si rivolge alla giovane compagna. «Eravamo ricchi soltanto di sogni, con i bagagli carichi di generi alimentari e medicinali, i miei prontuari medici, i tuoi libri di poesie. Me le recitavi la sera, seduti a contemplare il cielo del Sudd trapunto di stelle. Ricordi la nostra festa di nozze? Indossavi l’abito che era stato di tua madre; l’avevi portato con te a mia insaputa per farmi una sorpresa: di pizzo candido, con una nuvola di tulle per velo, e le donne del villaggio avevano raccolto per te le protee della palude. È stato Don Carlo a unirci in matrimonio nella chiesetta della missione, mentre suor Marta cantava L’ave Maria e suor Giulia l’accompagnava con la chitarra. Abbiamo festeggiato tutta la notte, mangiato focacce di cereali e bevuto latte tiepido di capra. Ricordi com’erano suggestive le danze dei dinka? La pelle scura illuminata dalla luna, le movenze sinuose, le braccia alzate a mimare le corna delle mucche. Abbiamo ballato con loro finché, sfiniti, ci siamo ritirati nel tukul e ci siamo amati fino all’alba, abbracciati sul giaciglio di stuoie coperte da morbide pelli di vacca. In quel momento ho sentito di appartenerti, e che entrambi appartenevamo a questa gente e all’Africa.»
Patty lo guarda con il suo tenero sorriso e sembra annuire in silenzio. Non c’è mai stato bisogno di troppe parole tra loro: i loro cuori hanno sempre battuto all’unisono.
«Ehi, papà!»
Una bimba si è staccata dal gruppo e trotterella verso di lui; si ferma un attimo, sfiora il volto di Patty con un bacio, poi gli salta sulle ginocchia e gli cinge il collo con le braccia.
«Stavi dormendo?»
Fabio le passa una mano tra la folta lanugine dei capelli. Gli occhi dalle iridi scurissime lo fissano dal visetto paffuto. Hope è sveglia e intelligente, con la grazia e la perfezione che esploderanno, fra pochi anni, in una bellezza fuori dal comune. Sarà una donna nuova, di un giovane paese che ha pagato, e sta ancora pagando, un prezzo altissimo per la sua indipendenza. Un tributo estorto col sangue di milioni d’innocenti, con la fame, la schiavitù, le deportazioni di massa, la povertà estrema di una terra le cui immense risorse continuano a essere sfruttate da chi non ne detiene i diritti. Non è un politico, Fabio, ed è andato in Africa per aiutare, non per giudicare, ma è stato testimone di troppe ingiustizie e atrocità, ha dovuto curare centinaia di ferite e asciugare fiumi di lacrime; ha visto villaggi distrutti, adolescenti imbracciare armi più grandi e pesanti di loro e sparare ai loro simili, bambini sventrati nei campi minati che erano obbligati a bonificare. Troppo sangue e troppe lacrime. Sarebbe impazzito se non ci fosse stata Patrizia al suo fianco: lei non aveva incertezze, non perdeva mai la speranza, era forte come le rocce del deserto. Lo stringeva in silenzio e lasciava che piangesse sul suo petto, con la testa appoggiata sul cuore, finché il ritmo regolare dei battiti riusciva a calmarlo. Solo allora gli asciugava le lacrime e lo baciava sulle labbra con tenerezza, e sebbene spossati dalle lunghe giornate estenuanti, facevano l’amore e si addormentavano abbracciati. Ogni nuova alba si svegliava accanto a lei e rimaneva in silenzio a guardarla, abbandonata nel sonno come una bambina, il corpo dalle curve morbide e la pelle colorata d’ambra dal sole dell’Africa.
Sono passati quasi dieci anni, e nemmeno una volta Fabio si è pentito d’avere seguito Patrizia. Hanno profuso ogni loro energia per aiutare i diseredati: alla missione, nei campi profughi, nei villaggi devastati dalle rappresaglie, nei piccoli ospedali mal attrezzati. Sono stati testimoni di orrori ed efferatezze di ogni genere, hanno sofferto la fame e la sete insieme a coloro che considerano fratelli, corso rischi che mettevano a repentaglio la loro stessa vita. Sempre insieme: due corpi e una sola anima che si espandeva fino a fondersi con l’immensa anima dell’Africa. Adesso, però, Fabio si sente stanco, e soltanto il dolce sorriso di Patty riesce a rincuorarlo.
Il tocco leggero delle dita sulla fronte lo strappa alle sue riflessioni; Hope lo fissa, preoccupata:
«Non essere triste, papà: la mamma non vuole che tu sia triste.»
L’uomo inghiotte a fatica le lacrime e la stringe al petto. Fra i tanti orfani della missione, Hope è la figlia del cuore, sua e di Patty, quella che non sono riusciti a regalarsi con il loro amore, ma non per questo meno adorata. Le immagini della notte di otto anni prima sono impresse a fuoco nella sua memoria.

Al termine del periodo delle piogge, i dinka si erano trasferiti con le mandrie nei pascoli vicini ai corsi d’acqua. Era la stagione più bella dell’anno per le comunità che si ritrovavano negli insediamenti stabili, e coincideva con la celebrazione di matrimoni e altri rituali collettivi.
Le grida che avevano spezzato il sonno della missione non assomigliavano ai canti dei pastori e agli schiamazzi gioiosi dei bambini. Fabio, don Carlo e tutti gli altri, svegliati di soprassalto, erano corsi fuori, appena in tempo per sentire le ultime parole del vecchio coperto di fango e sangue, gli occhi sbarrati dal terrore.
«Villaggio, guerrieri, bastoni di fuoco…»
Non avevano compreso tutto, ma il senso era drammaticamente chiaro: uno dei villaggi era stato assalito.
La notte si stava tingendo delle prime luci dell’alba; Fabio e Carlo non avevano indugiato: uno con la borsa dei ferri chirurgici e dei medicinali, l’altro con la stola e il messale, entrambi con la speranza di portare soccorso e conforto ai corpi e alle anime. Patrizia non aveva voluto saperne di rimanere al sicuro alla missione ed era saltata sul sedile posteriore della jeep, dopo aver caricato una tanica d’acqua, bende e indumenti puliti. Avevano impiegato più di due ore per raggiungere il villaggio; in jeep lungo la pista sconnessa, e l’ultimo tratto a piedi attraverso l’intrico della vegetazione, carichi di bagagli ed esausti, sostenuti dalla speranza di trovare qualche superstite. A tratti, il vento della savana feriva le narici con l’odore acre di bruciato, raccapricciante scia di morte a guidare i loro passi. 
Giunti nella radura, lo scenario si era presentato più sconvolgente di quanto avessero immaginato: i tukul abbattuti, il pozzo insabbiato e riempito di pietre, i granai dati alle fiamme; cadaveri smembrati e bruciati tra i quali si aggiravano, muggendo di terrore, i pochi zebù sfuggiti alla razzia. Don Carlo era corso in direzione dei resti fumanti del pacifico villaggio di pastori e contadini. Fabio, sotto shock, si era appoggiato al tronco di un’acacia. La testa gli girava vorticosamente e sarebbe scivolato a terra, se le braccia di Patrizia non l’avessero sorretto. «Coraggio» aveva sussurrato la donna, «andiamo…»
Aggrappati l’uno all’altra, barcollanti, avevano raggiunto Carlo che, inginocchiato tra i cadaveri dei dinka, pregava per le loro anime. Ciò che era scampato alla furia degli aggressori non era stato risparmiato dal fuoco, e l’odore del sangue si mischiava a quello dei corpi arsi e della legna carbonizzata. Con la forza della disperazione, Patty e Fabio avevano ispezionato ogni angolo del villaggio, ma la speranza che ci fosse qualche sopravvissuto si era rivelata vana: solo alcune decine di vecchi barbaramente trucidati e pochi uomini più giovani, caduti nel tentativo di difendere le famiglie e il bestiame. I bastoni e le lance non erano valsi a nulla contro i kalashnikov.
«Dove sono gli altri?» aveva chiesto Patty «I giovani, le donne, i bambini…»
«Alcuni saranno fuggiti nella foresta, molti sono stati catturati per essere venduti come schiavi.»
Gli occhi di Patrizia si erano riempiti di lacrime.
«Mio Dio… è atroce…» era crollata in ginocchio e singhiozzava.
«Non possiamo fare nulla per questi poveretti» la voce di Carlo sembrava provenire da una distanza remota. «Preghiamo, affinché Dio li accolga nella sua misericordia».
«La misericordia di Dio?» si era ribellato Fabio con veemenza. «Quale Dio può permettere che accada questo?»
Patty gli aveva tappato la bocca con una mano.
«Non bestemmiare! Non siamo in grado di comprendere il disegno divino, ma dobbiamo confidare nel Signore e rimetterci alla sua volontà.»
Stava per replicare che non intuiva nessun piano divino in quel barbaro massacro, quando un gemito, simile al verso di un animale ferito, aveva attirato la loro attenzione. Nei cespugli che delimitavano il villaggio, avevano trovato una donna riversa a terra, gli abiti bruciati e intrisi di sangue. Con cautela l’avevano voltata e Fabio si era chinato a esaminare le ferite; il volto, le braccia e le gambe erano devastati da ustioni profonde. Patrizia le aveva passato una mano sotto la nuca per sollevarle il capo e farle bere un po’ d’acqua dalla borraccia. La donna le aveva fatto cenno di avvicinarsi per sussurrarle qualcosa all’orecchio, poi era spirata.
«Cosa ti ha detto?» aveva chiesto Carlo mentre le abbassava le palpebre e si faceva il Segno della Croce.
«Il bambino… salvate il mio bambino…»
«Chissà che fine ha fatto il bambino…» Fabio scuoteva la testa «non riusciremo mai a ritrovarlo.»
«No! Il bambino deve ancora nascere: non vedi che è incinta? Devi operarla prima che muoia anche il piccolo!»
Praticare un cesareo in piena savana, e in quelle condizioni, era una follia, ma sarebbe stato un delitto non tentare. Per la madre non c’erano speranze, ma si poteva salvare il bambino. Patty aveva ragione: la donna era in avanzato stato di gravidanza e forse il piccolo era ancora vivo. Fabio aveva posato una mano sul ventre prominente e un impercettibile movimento aveva trasformato le speranze in certezza: nel grembo della sventurata si agitava una vita pronta a vedere la luce. Pochi minuti dopo, tagliava il cordone ombelicale e posava la bambina, che strillava a pieni polmoni, tra le braccia di Patrizia. Gli occhi di sua moglie si erano inondati di lacrime.
«Com’è bella! È sana e robusta. Hai visto, Fabio? Anche nei momenti più disperati può rinascere la speranza: non credi che questo faccia parte di un disegno divino?»
«Hai ragione…» aveva annuito, commosso.
«Speranza… che ne dite di chiamarla Hope?» era intervenuto il sacerdote. «Una speranza di pace per lei e la sua gente.»

Fabio accarezza Hope e pensa a tutto l’amore che le ha dato Patrizia. Fin dal primo istante che l’ha stretta al petto l’ha considerata sua figlia, l’ha allevata, curata ed educata. Patty riteneva che l’istruzione fosse fondamentale per quei bambini: dopo aver soddisfatto le necessità fisiologiche, bisognava sfamare e dissetare anche l’anima, e trascorreva molte ore nella scuola della missione a insegnare a leggere e scrivere. Hope e gli altri bambini avrebbero avuto un futuro migliore, in un paese di prosperità e pace.
“Pace” era la sua parola preferita. La pronunciava spesso… Anche quel giorno…

La giornata era più afosa del solito, la jeep arrancava sulla pista danneggiata dalle mine. L’epidemia di morbillo che aveva colpito i villaggi delle paludi costringeva Fabio a spostamenti quotidiani per inoculare i vaccini. Era una domenica di luglio, Don Carlo aveva celebrato la Messa nella chiesetta della missione e i bambini giocavano spensierati, sorvegliati dalle suore. Le truppe ribelli avevano ripiegato a nord già da diverse settimane, e Fabio aveva acconsentito che Patty andasse con lui. Cantava Patrizia, con la sua voce fresca.
Un piccolo drappello di ragazzi, tre in tutto, era sbucato dai cespugli, costringendo il veicolo a una brusca frenata. Vestiti con divise logore e armati di kalashnikov, probabilmente quei bambini, fuggiti dall’esercito di liberazione, erano solo affamati e spaventati. Sarebbe stato sufficiente dare loro un po’ di cibo, le borracce dell’acqua e qualche sterlina sudanese. Non aveva nemmeno fatto in tempo a suggerirle la prudenza, che Patrizia era già saltata dalla jeep e avanzava verso di loro, le braccia alzate con i palmi delle mani aperte, sorridente.
«Pace…» continuava a ripetere, «pace.»
Il bambino più piccolo si era fermato a guardarla come ipnotizzato, poi aveva lasciato cadere il fucile e le era corso incontro per rifugiarsi tra le sue braccia. Gli altri avevano cercato di richiamarlo indietro, a uno dei due era partito un colpo. Erano fuggiti prima che Fabio riuscisse a comprendere cosa stesse accadendo. Patrizia si era accasciata al suolo, ancora stretta al piccolo che aveva protetto con il suo corpo; sull’arida terra marrone si allargavano dei fiori rossi: il suo sangue.
«Pace…» aveva sussurrato, mentre Fabio si chinava su di lei sconvolto dalla disperazione.
Era stata la sua ultima parola.

Fabio guarda Patrizia che sorride dalla foto posta sulla lapide della tomba bianca, nel cimitero cristiano all’ombra del sicomoro. Patty ha donato la vita per quella terra, per la gente che amava, per la sua Africa. È morta in nome della pace e gli ha lasciato l’eredità di proseguire la sua missione; non può deluderla: non abbandonerà mai l’Africa.
Sorride a sua volta all’immagine della donna che amerà per sempre.