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sabato 7 novembre 2015

La Signora del bosco





«Tramontana scura, acqua sicura».
Nel bar del porto, l’unico avventore alza gli occhi dal giornale sportivo; getta un’occhiata infastidita al tipo che è entrato portando con sé una folata di vento gelido, ha pronunciato quella frase ed è scoppiato subito dopo in un accesso di tosse.
- È solo l’idiota di Giampiero, il barbone – pensa, e con un’alzata di spalle torna a interessarsi alle prodezze della sua squadra preferita.
«Giampi, chiudi la porta che stamani fa un freddo cane!» inveisce Giorgio, il gestore. «Sei venuto a scroccare la colazione come al solito? Puntuale come le tasse e molesto come un tafano. Perché non provi a cambiare zona, ogni tanto?» ride.
«Grazie al Cielo, io non so nemmeno come sia fatta una cartella delle tasse» replica Giampiero con un sorriso sdentato, «e questo è l’unico locale aperto in tutta la darsena».
«Quindi non sei qui per scelta, ma per necessità. E io, povero illuso, che mi sentivo onorato della tua presenza…» ironizza l’altro, mentre carica il filtro con la miscela tostata e lo avvita nella macchina.
«Vengo a trovarti per il piacere della tua compagnia, e perché so che tieni sempre un “caffè sospeso” per un povero senzatetto come me. Se poi ti avanzasse qualche pastarella… vanno bene anche quelle di ieri».
«Per chi mi hai preso?» sbuffa Giorgio, fingendosi indignato. «Non accadrà mai che uno dei miei clienti consumi qualcosa che non sia freschissimo. Scegli quello che vuoi,» indica la vetrina dov’è esposta la pasticceria, «è tutta roba di prima qualità».
«Fai finta di essere burbero, ma in fondo sei un buon diavolo» sospira Giampiero. «Il Cielo te ne renderà merito».
Giorgio scuote la testa: «Starei fresco se aspettassi l’aiuto del Cielo. Di questi tempi, se non ci rimbocchiamo le maniche e non ci diamo una mano tra di noi…» appoggia sul bancone una tazzina fumante, insieme a un vassoio con tre brioche. «Adesso mangia, che con questo freddo ti servono un po’ di calorie. Sei pelle e ossa e hai una tossaccia che non mi piace per nulla. Dovresti farti vedere da un medico e coprirti di più. Mia moglie ti ha mandato un giaccone smesso di nostro figlio; ti starà un po’ largo, ma è imbottito e ha un cappuccio foderato di pelo. Se non ti offendi…»
«L’unica cosa che mi offende è vedere piangere di dolore un bambino» replica il barbone. «Ringrazia la tua signora, amico, e portale questi da parte mia» tira fuori un involto di tela da sotto il pastrano logoro e lo appoggia con delicatezza sul bancone.
Giorgio ne solleva i lembi per scoprire cosa contenga, e una pungente fragranza di sottobosco gli solletica le narici; sbarra gli occhi dallo stupore alla vista dei cinque superbi funghi, turgidi e scuri, adagiati in un letto di muschio e umidi di rugiada.
«Porcini in questa stagione? Sono una meraviglia, dove li hai trovati?»
«Non posso svelarti tutti i miei segreti» gli strizza un occhio, «diciamo che ho degli amici, nel bosco, e loro mi danno qualche dritta…»
«Ah, sì, certo: gli elfi» sorride Giorgio, «I tuoi amici magici, quelli con la pelle verde e le orecchie a punta che vivono nel bosco. Sono loro che ti hanno fatto trovare i funghi; come ho fatto a non pensarci?»
«Zitto, abbassa la voce…» Giampiero indica con un cenno della testa l’uomo seduto a un tavolino, immerso nelle pagine rosa del quotidiano sportivo. «Gli elfi non vogliono che si sappia della loro esistenza. Il mondo non è ancora pronto a capire».
«D’accordo, ma spiegami una cosa: come mai solo tu riesci a vederli? Sono stato centinaia di volte nella macchia, in cerca di funghi e asparagi selvatici, ma non ho trovato altro che buche scavate dai tassi e orme di cinghiali, e mi sono imbattuto soltanto in lepri, daini e scoiattoli. Di elfi o altre creature magiche, nemmeno l’ombra».
«Sono sicuro che un giorno riuscirai a vederli anche tu perché hai l'anima pura di un bambino. Quando ti libererai dai lacci della ragione e smetterai di farti domande, le risposte verranno da sole. Vai nella selva e lasciati pervadere dal tuo amore per la natura; aprile il cuore, diventa un tutt'uno con essa. Devi respirare nel vento, piangere nella pioggia, cinguettare con gli uccelli, guardare l’erba che spunta… solo allora le divinità del bosco potranno manifestarsi ai tuoi occhi. Ma devi credere alla loro esistenza. Ricorda: bisogna avere fede per vedere l’invisibile.»
Giorgio scuote la testa, sorridendo bonariamente. Ormai è abituato ai vaneggiamenti di Giampiero, e spesso, se non ha troppo lavoro da sbrigare, s’intrattiene a chiacchierare con lui e ascolta volentieri le sue storie fantastiche.
Nessuno sa chi sia Giampiero: è piovuto nel piccolo paese rivierasco un anno fa, in una fredda giornata d’inverno come quella di oggi. Una tramontana gelida spingeva i cirri minacciosi e gonfiava le onde del mare, che muggiva come un toro ferito. L’uomo, avvolto in un tabarro di tela cerata lungo fino ai piedi, una nuvola di capelli candidi e barba incolta su una fitta ragnatela di rughe, è entrato nel locale, portando con sé l’odore di pioggia e terra bagnata. Ha sorriso con i pochi denti ingialliti, e gli occhi, azzurri come un cielo d’aprile, hanno aperto una breccia nell’anima del gestore.
«Buon giorno, brav’uomo» ha esclamato con la voce limpida di un bambino, «vi avanza un caffè per il vecchio Giampiero?»
È stato un comprendersi al primo sguardo, come ritrovare una persona cara che si credeva perduta, un amico di quelli che puoi anche non vedere né sentire per anni, ma che sono sempre lì, dentro il cuore. Da quel giorno, non c’è una mattina che Giorgio non spii con ansia la porta del bar e non tiri un sospiro di sollievo nello scorgere, tra le facce dei clienti, quella rugosa e sorridente del vecchio. Ha provato molte volte a offrirgli ospitalità, soprattutto nel periodo più rigido dell’anno, ma l’altro ha sempre rifiutato; d’estate dorme sulla spiaggia, e durante l’inverno trova riparo dentro un vagone pieno di ruggine, abbandonato su un binario morto della stazione ferroviaria. Accetta solo qualche caffè, un po’ di cibo, coperte e abiti smessi, e ricambia la cortesia con piccoli doni: funghi, more, lamponi, fragole selvatiche, pigne cariche di pinoli che raccoglie nella macchia, cannolicchi e altri molluschi straccati dal mare. È un uomo libero, Giampiero: la libertà rappresenta la sua unica ricchezza, la sola cosa alla quale non rinuncerebbe mai.
«Grazie, amico mio, adesso però devo andarmene».
«Dove vuoi andare, con questo tempaccio?» protesta Giorgio. «Ha cominciato a tuonare e tra poco verrà giù la fine del mondo. L’hai detto anche tu poco fa: tramontana scura, acqua sicura. Rimani qui al caldo e stasera vieni a casa con me. Mia moglie ne sarà felice».
«Non posso, davvero, ma ti ringrazio di cuore. Lei mi sta aspettando…» il vecchio ha abbassato il tono in un sussurro confidenziale. «Diventa triste se non mi vede, ed io non voglio che sia triste per colpa mia».
«Lei, chi?» domanda Giorgio, perplesso.
«Shh, parla piano, amico. Lei… te ne ho parlato più di una volta, ricordi?»
«Vuoi dire la bellissima fanciulla dalla pelle verde e i capelli d’argento che vive nello stagno? Suvvia, Giampi, sii ragionevole: nessuno sguazzerebbe nello stagno con un temporale in arrivo. Anche gli animali cercano un riparo sicuro, quando le forze della natura si scatenano…»
«Lei non è un animale!» lo interrompe con veemenza. «Lei è la regina del bosco, la signora dell’acqua e del vento. Non teme la natura perché la domina e la governa. E adesso mi sta aspettando…»
Senza aggiungere altro, butta giù l’ultimo sorso del suo caffè, saluta con un cenno della mano e gira sui tacchi, raggiungendo la porta. Si volta un attimo, lo fissa come se volesse imprimersi il suo volto nella memoria, gli regala un sorriso e schizza fuori.
«Aspetta un momento!» gli urla dietro Giorgio. «Non hai preso nemmeno il giaccone. Ti bagnerai fino alle ossa…»
Inutile: Giampiero si è già dileguato nel brontolio dei tuoni.
«Lascialo stare, quello,» sbuffa l’altro cliente, girando una pagina del giornale, «lo sanno tutti che è un povero pazzo visionario. E deve essere anche malato: hai sentito che tosse? Uno di questi giorni, sparirà così com’è apparso e non sentiremo più parlare di lui.
«Già,» sospira Giorgio, scuotendo la testa, «mi sembra che stia sempre peggio… ma è testardo come un mulo e non vuole saperne di farsi curare. Temo che gli accada qualcosa di brutto…»
Il suo interlocutore solleva le spalle con noncuranza. «Non sarà una gran perdita… Ma parliamo di cose serie: hai visto la partita, ieri sera?»

Ha fretta Giampiero. Accelera i passi e il vento amico lo sospinge; gli sembra quasi che i piedi non tocchino terra. È una sensazione meravigliosa assecondare il respiro della tramontana: fluttua leggero come un soffione di tarassaco. Il dolore è scomparso e si sente bene, per la prima volta dopo tanto tempo. L’elisir di erbe e rugiada che gli ha donato la signora del bosco, ha alleviato le sue sofferenze fino ad annullarle del tutto. Se non fosse per la tosse che lo lascia senza forze, e per il catarro sanguinolento che espettora durante gli attacchi convulsi, crederebbe di essere guarito. Sa che non è possibile, glielo ha detto lei, con la voce melodiosa incrinata dal rammarico:
«Posso far sì che tu non soffra, posso regalarti un po’ di quello che voi umani chiamate “tempo”, ma non posso sottrarti al tuo destino».
Giampiero è consapevole che non gli resta molto da vivere, anzi, è già vissuto più di quanto avrebbe dovuto. Sa di essere condannato da quando ha cominciato a sputare sangue vivo, e si è deciso a rivolgersi all’ospedale di uno dei tanti paesi nei quali il suo peregrinare l’ha condotto.
«La lesione polmonare è estesa, si riscontrano danni ai bronchi e metastasi diffuse» ha sentenziato il dottore, indicando una macchia nella lastra radiografica. «Temo che la chirurgia sia inutile, ma con un trattamento combinato di radio e chemioterapia, si può sperare nel prolungamento delle aspettative di vita. Sei mesi, forse un anno…»
Ne sono passati due, di anni, e senza che si sia lasciato torturare dai medici. Del resto, vivere per lui non era più importante, non dopo aver perso tutto. Il figlio, morto nell’incidente automobilistico causato da un colpo di sonno e dal quale lui, che ne è stato responsabile, è uscito quasi indenne. La moglie, che non gli ha perdonato la colpa e se n’è andata, dopo avergli vomitato addosso il suo disprezzo. Il lavoro perduto, gli amici che ha allontanato… non c’era più nulla per cui valesse la pena di stare al mondo. Ha venduto la casa, ha depositato i soldi su un conto corrente intestato alla moglie ed è saltato sul primo treno in partenza, senza nemmeno sapere dove fosse diretto. Da quel giorno, ha vagato da un posto all’altro, dormendo dove capitava e mangiando quando poteva. È vissuto di espedienti, grazie alla generosità del prossimo, finché le scarpe sfondate l’hanno portato in quel paese di mare. Un pugno di casupole di pescatori incastonate fra dune selvagge, degradanti in una spiaggia di sabbia bianca, e una pineta centenaria con un sottobosco di lussureggianti arbusti sempreverdi.
- Se esiste un Paradiso sulla Terra – ha pensato Giampiero quando ha trovato quel luogo incantevole, – non può essere che questo. È qui che voglio morire. – Ed è rimasto lì, a respirare con i sui polmoni condannati l’aria salmastra e godere dei tramonti infuocati. Ormai conosce i paesani uno a uno, e tutti, salvo poche eccezioni, lo trattano con cordialità. Gente di mare, gente semplice dal cuore grande, come i marinai che la sera rientrano al porticciolo sui pescherecci e gli regalano una cassetta di pesce, o gli ambulanti del mercato che tengono in serbo per lui un po’ di frutta e verdura di stagione. E come Giorgio, il suo migliore amico, forse l’unico amico vero che abbia mai avuto. Per Giampiero è come un figlio, e gli assomiglia anche un po’ a quel figlio tanto amato, morto per colpa sua. Ha gli stessi occhi limpidi e la stessa nobiltà d’animo. Giorgio è il solo con il quale abbia parlato delle creature magiche. Sa che l’uomo non crede all’esistenza degli elfi, ma un giorno capirà, e quel giorno loro sapranno trovarlo.
Una folgore squarcia la coltre di nubi; le fa seguito un boato assordante. Le prime gocce di pioggia gli sferzano la faccia, insieme agli spruzzi salati delle onde che s’infrangono con violenza contro la barriera frangiflutti. Giampiero accelera il passo. Deve fare presto: non gli resta molto tempo e lei lo sta aspettando. Spinto dalla tramontana, percorre quasi di corsa la banchina del molo, attraversa la rimessa delle barche e imbocca il sentiero che dalla darsena conduce alla pineta. Le chiome dei pini secolari danzano nel vento; intonano tutte insieme una sinfonia di suoni che fa da contrappunto al rimbombo del temporale in arrivo. Il bosco piange, ride, respira, esulta grato alla pioggia, geme scricchiolando alle folate del vento, trema al fragore dei tuoni, rabbrividisce di terrore allo schianto dei fulmini. Le sente quelle voci, le riconosce una a una, e fra tutte, distingue quella di lei che lo chiama. - Che strano – riflette - sono arrivato qua con la tramontana, in un giorno identico a questo, e sarà la tramontana a portarsi via la mia anima. –
Non teme la morte, non ne ha paura: lei gli ha detto che non deve avere paura.
«La morte è solo il compimento di un ciclo» ha sussurrato, fissandolo con gli occhi verdi come le foglie delle ninfee, «non devi temerla. Rinascerai nella spuma delle onde, nella sabbia sottile delle dune, nel profumo delle bacche di ginepro e nello stormire degli aghi di pino. Sarai la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Germoglierai insieme ai fiori, piangerai nella rugiada, respirerai nella brezza e arderai nel sole».
Quanta consolazione gli regalano ogni volta quelle parole! Riescono perfino a lenire il dolore per la morte del figlio, che ancora, dopo due anni, gli strazia l’anima più di quanto le metastasi del cancro non torturino il corpo. Giampiero non sa perché gli elfi abbiano voluto manifestarsi proprio a un miserabile come lui, ma non si fa domande. Ha smesso di farsi domande da molto tempo, da quando la sua vita, e quella delle persone che amava, è andata in pezzi per la scelleratezza di un attimo. Da allora, non ha desiderato altro che pagare la sua colpa, e non ha neppure provato a cercare conforto in quel Dio che si è dimenticato di lui. Non ha fatto che vagare senza meta, inseguito dai suoi fantasmi, in cerca di un posto dove lasciarsi morire. Il giorno che quel medico ha previsto con tanta approssimazione, alla fine è arrivato. L’ha capito appena ha aperto gli occhi e ha sentito il ringhio della tramontana scuotere le lamiere del vagone ferroviario. Come ogni altra mattina, ha ripiegato con cura la coperta sul pagliericcio improvvisato, ha indossato il pastrano e gli scarponi ed è uscito. Dalla stazione, si è incamminato verso il porto per dare un ultimo saluto al mare, poi si è recato al bar. Giorgio non voleva lasciarlo andare, quasi sentisse che non l’avrebbe più rivisto. Non gli ha detto nulla, ha preferito salutarlo con un sorriso e andare incontro al suo destino accompagnato soltanto dal vento.
Man mano che avanza nel cuore del bosco, la vegetazione diventa più fitta e il sentiero si assottiglia, fino a scomparire nel letto di muschio e aghi di pino. Ormai nemmeno la luce riesce a filtrare nell’intreccio intricato degli arbusti, ma Giampiero non ha bisogno di vedere. Ha fatto quel percorso centinaia di volte, conosce ogni pietra, ogni cespuglio, ogni filo d’erba. Ecco, è arrivato: scosta con la mano una barriera di rampicanti che, dall’alto dei pini, ricadono fino a terra, ed entra nel tempio.
Il tempio: è così che l’ha chiamato, fin dalla prima volta che i suoi occhi stupefatti hanno ammirato ciò che a nessun altro essere umano era stato concesso di ammirare. Una sorta di cupola formata dalle chiome degli alberi e delimitata dai tronchi ricoperti di edera, irradiata da una luccicante luce verde. È rimasto abbagliato da quella luce ed è crollato in ginocchio, timoroso, come se si trovasse in un luogo sacro. Quando è riuscito di nuovo a focalizzare le immagini, ha visto un piccolo stagno immerso in un prato fiorito. Nello specchio d’acqua, tra un tripudio di ninfee bianche, decine di creature fatate rendevano omaggio a una fanciulla bellissima, seduta su una pietra coperta di muschio. La pelle di quelle creature era di un verde pallido e luminescente, gli occhi dal taglio allungato e le orecchie leggermente appuntite. Giampiero aveva visto qualcosa di simile solo nei libri di fiabe che leggeva a suo figlio quando era piccolo, ma non avrebbe mai immaginato che gli elfi del bosco esistessero davvero, e che lui li avrebbe avuto il privilegio d’incontrarli. Si è strofinato gli occhi, convinto di essere vittima di un’allucinazione; quando li ha riaperti, ha incontrato quelli della fanciulla e si è sentito, per un attimo, immensamente felice.
Felice com’è adesso, che lei lo sta di nuovo guardando e gli sorride.
«Sei venuto… ti stavo aspettando» scuote la folta chioma argentea, intrecciata con fiori di biancospino, e gli fa cenno di avvicinarsi con la mano sottile.
Giampiero entra nello stagno. Non sente freddo e non ha paura. Il vento gelido e il brontolio dei tuoni hanno ceduto il posto a un tiepido refolo primaverile e alla melodia di migliaia di uccelli. La regina del bosco sorride, ed è un sorriso che riscalda l’anima. Con l’altra mano, gli porge una ciotola scavata nella corteccia.
«Bevi. Non sentirai più dolore e ti addormenterai. La terra ti sarà lieve e dai tuoi umori germoglieranno i suoi frutti. Sarai un fiore nel vento, una libellula dalle ali colorate, un gabbiano che stride volando verso il sole».
Giampiero beve, grato; chiude gli occhi e si addormenta sereno.